Nel Salento dove il turismo appiattisce quasi tutto, un itinerario tra storia e natura che non t’aspetti (la Repubblica – Bari, 21 agosto 2020)
erra di magìa, di “Sud e Magìa”, di masciare e di fascinazione, ora quasi tutto assorbito da un’offerta turistica che appiattisce più che far emergere. In Terra d’Otranto Alimini, con i suoi laghi (Grande e Fontanelle o Piccolo), ci fa da apripista. A dir la verità mi sono posto a non poco cimento nel trovare un incipit adeguato per questo vagabondare. Reperito nella mia memoria in una zona tra Frassanito ed Alimini grande. Una piccola area dietro le dune (su cui vegeta – caso raro – la felce Pteris aquilina grazie alla falda superficiale) dove sono presenti rarità botaniche in un contesto fatato. È un piccolo complesso boscato di quercia coccifera, di corbezzolo, di erica arborea e dell’unica liana arborea della flora italiana, la Periploca greca. Lì ci si trova davanti ad un intrico di rovi e sottobosco e poi, facendosi largo, davanti ad alcuni esemplari arborei di corbezzolo anche fino a 2 metri di circonferenza e così per l’erica arborea. In passato vi sono stati tagli a scelta delle piante più redditizie per ricavare carbonella.
I faggi di Alimini
Siamo in un territorio ammaliante, denso di storia, di rimandi culturali e di relitti di ecosistemi che consentono ancora di avere un’idea abbastanza chiara di ciò che c’era e che potrebbe ancora e di nuovo esserci. Alimini è anche la sua pineta ed è un comprensorio che registra piovosità pari a quella dei Monti Dauni o del Gargano, circa 800 mm di pioggia all’anno (analisi del polline raccolto nel fondo di Alimini grande ha accertato lì la presenza di faggi circa 11.000 anni fa). Era qui la Foresta di Lecce che fin alle porte di Otranto misurava 75 chilometri ed aveva nel XV e XVI secolo pascoli, paludi, boschi e macchie gravati da diritti d’uso da parte dei residenti nel contado. Si prelevavano legna da ardere e da carbonizzare, canne palustri per realizzare muri divisori e soffitti, cortecce ed erbe medicamentose, miele e cere d’api. A fine del XVIII secolo la grande Foresta passò dai Francavilla al Regno di Napoli che assicurava una gestione accorta della risorsa forestale. Con le leggi napoleoniche di eversione dalla feudalità (1806), che hanno smembrato l’immenso demanio salentino facendone beneficiare l’emergente borghesia agraria e non di rado gli ex feudatari, è cominciato il tracollo forestale della Terra d’Otranto. Deforestazione forsennata e dissesto idrogeologico.
I rimboschimenti non banali
A quest’ultimo si è cercato di porre rimedio nel tempo con imboschimenti fin dagli inizi del ‘900 in alcune aziende private (a Melissano, a Supersano e ad Otranto) e ad Alimini negli anni ’50 del secolo scorso con la Cassa per il Mezzogiorno finanziando il consolidamento del cordone dunoso e l’impianto di pinete divenute scrigni di biodiversità nonostante gli insediamenti turistici realizzati a partire dagli anni ’80. Ai pini d’Aleppo ora si accompagna un ricco sottobosco e lecci, oleastri, alloro e ginepro coccolone; vicino ai laghi, olmo campestre, pioppo bianco, pioppo nero, ílatro comune e lentisco. Dobbiamo proseguire, però, ed entrare nel parco naturale regionale Costa Otranto-Santa Maria di Leuca istituito nel 2006 dopo alcuni anni di negoziato con i 12 Comuni interessati. Forse una delle esperienze più riuscite di area protetta regionale in Puglia (per essere guidati in escursioni è utile rivolgersi a MTB Tricase https://www.facebook.com/ASDMTBTricase/ – mtbtricase@gmail.com – tel. +39 347 006 7379 ed a Cooperativa Terrarossa http://www.cooperativaterrarossa.org/ – cooperativasocialeterrarossa@gmail.com – tel. +39 320 770 9937). Oggi il Parco è gestito, attivo nella conservazione della natura e sul territorio; coinvolge popolazioni e turisti e sta vivendo un’importante ricolonizzazione da parte di specie animali di rilievo e di richiamo.
Un Parco di buone speranze
La foca monaca, il mammifero più minacciato d’Europa, è stato avvistato nuovamente da queste parti dopo decenni ed il lupo si è fatto rivedere con presenza geneticamente accertata. Il faro di Punta Palascía, la più ad est d’Italia, è ormai molto conosciuto e frequentato, riferimento nei 70 chilometri di alte falesie. Qui si riproducevano l’aquila di mare ed il falco della regina i cui ultimi esemplari vennero uccisi nel settembre 1971. Nelle innumerevoli grotte emerse e semisommerse si trovano specie uniche di invertebrati (Salentinella gracillina e Thyphlocaris salentina) oltre che resti fossili di grandi mammiferi nelle grotte Romanelli (a Santa Cesarea) e del Cervo (a Porto Badisco). Sulle falesie l’eccezionale valore floristico della presenza di Ephedra campylopoda, che in Italia vegeta solo qui lungo poche centinaia di metri di costa, e di Centaurea leucadea. A Torre Minervino su una parete di 30-40 metri esposta a sud-est, protetta da tramontana e maestrale, vegetano (solo lì, in un fazzoletto) oltre 60 specie rupicole. Tanta roba in quest’area straordinaria che potrebbe essere accompagnata, speriamo presto, da un’area marina protetta da troppo tempo in attesa d’istituzione.
La “falamida” ed il “pelacane”
Così finiamo con il bosco di Tricase. “Bosco” si fa per dire con il suo mezzo ettaro di superficie ma biotopo rilevante perché nucleo più importante in Italia di quercia vallonea (Quercus Aegilops subsp. Macrolepis), specie transbalcanica per eccellenza, forse importata tra il X e l’XI secolo da monaci basiliani o forse relitto di un collegamento geologico con l’altra sponda dell’Adriatico. A Corigliano d’Otranto, dove si parla ancora il grecánico, la chiamano “Falamida”. L’esemplare più maestoso è Monumento nazionale. Per la ricchezza di tannino, le cupole delle sue ghiande (Valani gliceo – ghianda dolce – in grecánico) sono state da sempre usate nell’arte del “pelacane”, termine anch’esso di origine greca che indica la concia delle pelli importata a Tricase dagli arabi nel IX secolo.
Fabio Modesti