Porto Selvaggio, un angolo di paradiso salvato dal cemento

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Una delle aree protette regionali pugliesi meglio gestite, nonostante la pressione turistica. Il Parco naturale regionale di Porto Selvaggio – Palude del Capitano ha una storia recente tinta anche di giallo e non meno interessante di quella dei primordi dell’Uomo (la Repubblica – Bari 17 marzo 2020)

 

Torre Uluzzo sovrasta la omonima baia nel Parco Naturale Regionale di Porto Selvaggio-Palude del Capitano (Foto Fabio Modesti)

 

Porto Selvaggio paradigma delle aree protette in Puglia. Per salvarlo dalla cementificazione 1980 si istituì, sotto la spinta di movimenti locali per la tutela dell’area contro la proposta di piano di lottizzazione dell’allora proprietario, il barone Fumarola, un parco naturale attrezzato. «Definizione ambigua» – per dirla con Luciano Tarricone il cui padre, Luigi, era l’allora presidente del Consiglio regionale pugliese –. Ma quella fu la definizione varata con la legge regionale n. 21/1980 alla quale seguì subito una dotazione finanziaria per allora inimmaginabile per la tutela ambientale: 10 miliardi di vecchie lire derivanti dal Fondo per gli investimenti e l’occupazione (FIO) per realizzare, però, impianti sportivi, megaparcheggi, illuminazione pubblica, ristrutturazione di fabbricati, un’inutile vasca antincendio e, ovviamente, gli espropri dei suoli. Il barone morì di crepacuore. Poi, nel 2006, il parco è divenuto, per legge regionale, “solo” naturale – aggregando l’area di palude del Capitano – anche perché, fortunatamente, molto poco di ciò che era previsto nell’“attrezzamento” fu realizzato. La delimitazione del parco del 1980 comprendeva aree

del “comparto A” ma non altre, contigue alle prime, definite “comparto B”. Il 4 giugno del 1984, ossia dopo poco più di due mesi dall’omicidio dell’assessore comunale di Nardò, la repubblicana Renata Fonte, la Giunta regionale pugliese adottò la deliberazione n. 512 con cui approvò il Piano di utilizzo del parco con norme vincolanti solo per il “comparto A”, di 231 ettari, mentre per il “comparto B”, di 193 ettari, (area di futuro ampliamento), le norme erano «da ritenersi di massima ed a titolo semplicemente indicativo». Il processo penale, conclusosi nel novembre 1988 con la condanna definitiva a mandante ed esecutori dell’omicidio, chiarì che erano proprio quelle aree del “comparto B”, prive di tutela, a fare gola agli speculatori edilizi contro i quali si batteva la Fonte, che pure non era stata in prima linea per l’istituzione del parco. Scrisse la Corte d’Assise di Lecce nella sentenza del 1987, confermata nei gradi successivi: «Si è parlato di Porto Selvaggio, ma il riferimento è chiaramente idoneo ed inteso ad individuare solo genericamente una località; si dimentica proprio tutta la diatriba che sorse intorno alle “zone” di rispetto, diatriba che iniziatasi nel novembre del 1983 continuò fino a giugno del 1984 allorché venne emanata la legge regionale per Porto Selvaggio (in realtà, la delibera n. 512 N.d.R.)». Certo, questa è solo la “verità processuale” ma questa è l’unica ad oggi. Se, quindi, Porto Selvaggio può insegnare qualcosa per l’istituzione di aree protette, è: mai lasciare indefinite le questioni; mai pensare che scelte fondamentali possano essere posticipate; mai pensare che dietro le pressioni per farlo non vi siano interessi più che “solidi”. Oggi, Porto Selvaggio, assieme a palude del Capitano, è una delle aree protette pugliesi più importanti per la conservazione del paesaggio e della natura, ma è pure tra le meglio gestite grazie all’abnegazione di alcuni amministratori comunali, pur restando una meta turistica molto ambita.

Fabio Modesti

 

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