Parchi, un’occasione persa e vince la burocrazia

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Tra le pochissime modifiche accettabili del tentativo di modificare la legge quadro, vi era quella che avrebbe cominciato a risolvere una delle questioni che caratterizzano negativamente il rapporto tra aree protette e cittadini: le procedure autorizzative per piani e progetti. Il Veneto ce l’ha fatta la Puglia no (da Villaggio globale 12 febbraio 2019)

 

di Fabio Modesti

 

Durante la precedente Legislatura parlamentare, conclusasi a marzo del 2018, ci fu un tentativo di modificare la Legge quadro sulle aree protette (la n. 394 del 1991). La maggioranza «riformatrice» era piuttosto trasversale ma aveva il nocciolo duro nel PD. Il testo

arrivò alle soglie della definitiva approvazione in Senato e lì si arenò anche perché la Ragioneria Generale dello Stato formulò rilievi che, certo, potevano essere superati ma che, evidentemente, fecero breccia nella stessa maggioranza pure ormai sfaldatasi.Ed è stato un bene sia andata così, nel senso che la proposta di legge di riforma della Legge quadro era un mostriciattolo giuridico che, peraltro, non affrontava o affrontava male i veri nodi della materia.Tuttavia tra le pochissime modifiche accettabili (da contare su meno delle dita di una mano) vi era quella che avrebbe cominciato a risolvere una delle questioni che caratterizzano negativamente il rapporto tra aree protette e cittadini: le procedure autorizzative per piani e progetti «sparpagliate» tra una pletora di soggetti pubblici cui si aggiunge, in alcuni casi, l’Ente di gestione di un’area protetta nazionale.La proposta di legge naufragata all’articolo 24 aveva affrontato il problema e trovato una soluzione normativa chiara, auspicata da coloro che hanno a cuore i destini della protezione della natura in Italia ma anche da chi ha semplicemente buon senso.Aveva previsto infatti che, nei territori dei Parchi nazionali, l’autorizzazione paesaggistica fosse demandata all’Ente Parco e che la stessa autorizzazione fosse rilasciata contestualmente al nulla osta del medesimo Ente che verifica la conformità del progetto al Piano per il Parco vigente. Perché, appunto, la conditio sine qua non per la quale la norma si sarebbe potuta applicare era la vigenza del Piano territoriale dell’area protetta.Non è di poco conto osservare che la disposizione avrebbe avuto effetto in meno della metà dei Parchi nazionali italiani (ed in Puglia, ad esempio, solo in quello dell’Alta Murgia il cui Piano è entrato in vigore nell’aprile del 2016; unico Piano per il Parco in Italia adeguato al Codice del Paesaggio ed al Piano Paesaggistico regionale).

Ora, si sperava che con il decreto legge 14 dicembre 2018, n. 135 «Disposizioni urgenti in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione», recentemente convertito in Legge dal Parlamento, l’argomento potesse essere ripreso. Laddove, «semplificare» non significa

banalizzare né, con orrendo infinito, «sburocratizzare» ma razionalizzare procedure.Invece si è dovuto prendere atto dell’assenza di qualsiasi intervento sulle procedure autorizzative nelle aree protette nazionali. Si sarebbero così potute affidare ai loro Enti di gestione oltre che le autorizzazioni paesaggistiche anche le procedure di valutazione ambientale per i territori di competenza (dalla valutazione di incidenza per i Siti Natura 2000 coinvolti, alla valutazione d’impatto ambientale ed alla valutazione ambientale strategica), facendo pressione, inoltre, perché gli stessi Enti concludano volontariamente con le Regioni accordi di collaborazione per razionalizzare ulteriori procedure autorizzative.Un possibile accordo interistituzionale che ha già, come detto, il crisma di legittimità della Corte Costituzionale e che migliorerebbe la vita a migliaia di cittadini oggi costretti a vagare tra città ed uffici di varie Amministrazioni, non sempre senza cadere vittime di concussione.

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