La possibile attualità di Federico II di Svevia e del suo De arte venandi cum avibus nel territorio di Capitanata. Paolo Breber esorta l’incontro tra umanistica e scienze naturali in un convegno internazionale da tenere a Foggia
In copertina, Falco cuculo (Falco vespertinus) con preda su un cartello di divieto di caccia – foto ©Francesco Ambrosi
di Paolo Breber
Federico II, questo stupor mundi che non cessa di interessare la storiografia, aveva un luogo del cuore nel suo dominio che si estendeva dal Baltico al Canale di Sicilia e questo luogo era la Capitanata. Tale delizia si comprende col fatto che qui c’era la condizione ideale per la falconeria, la grande passione del puer Apuliae. Anche se le tante faccende della politica lo portavano sempre in giro, appena poteva sempre qui voleva tornare. Il tipo di caccia preferito era quella con i falchi d’ala lunga: il girifalco, il pellegrino, il sacro e il lanario, che è quello praticato dagli arabi la cui civiltà così tanto ammirava. Per questo tipo di arte venatoria ci vogliono grandi distese pianeggianti senza ostacoli e la piana di Foggia si presentava in maniera superlativa. Destinata a pascolo delle greggi transumanti dall’Abruzzo, era una grande pianura a savana vergine punteggiata da perazzi. Piccoli scampoli di questo paesaggio si incontrano ancora qua e là, in primis l’Ovile Nazionale.
Verso il litorale
Verso il litorale la pianura asciutta degradava in estese plaghe acquitrinose di cui, nonostante gli sforzi della bonifica, alcuni tratti si possono ancora vedere tra Torre Mileto e la foce del Fortore, e tra Manfredonia e la foce dell’Ofanto. Queste paludi situate lungo una delle principali rotte migratorie attiravano moltissimi uccelli d’interesse della falconeria. Il fatto che la Capitanata offrisse a Federico l’agio di sviluppare in modo perfetto l’arte della falconeria ha portato l’intellettuale a produrre un manuale perfetto. Fuorché il meraviglioso Castel del Monte, il suo lieu de plaisance dove si ritirava per fuggire le calure di Foggia, Federico non ci ha lasciato molti monumenti artistici ed architettonici; tutti i castelli li avevano già costruiti i Normanni. La vera eredità perdurante di Federico II è il testo in questione che pur avendo un valore universale ha una specificità tutta particolare per la Capitanata. Le specie di uccelli descritte e miniate in calce erano quelle dell’avifauna locale e sono di grande curiosità scientifica. Il De arte venandi cum avibus, è stato da tempo sviscerato da paleografi, storiografi, filologi, storici dell’arte e altri, ma l’aspetto naturalistico, così di speciale interesse, non ha mai ricevuto la dovuta attenzione. Ammirando le figure miniate ai bordi delle pagine del manoscritto conservato in Vaticano, si possono riconoscere Pellicano, Cormorano, Airone cenerino, Cicogna, Cicogna nera, Mignattaio, Oca lombardella, Cigno selvatico, Volpoca, Germano reale, Aquila di mare, Avvoltoio monaco, Grifone, Pellegrino o lanario, Pernice rossa, Quaglia, Fagiano, Gru, Pollo sultano, Folaga, Otarda, Gallina prataiola, Piviere dorato, Gufo reale, Allodola, Storno, Gazza ladra. Alcune di queste specie offrono spunti per dei commenti.
Il pellicano fugace a Lago Salso
La Gru era il bersaglio più sportivo del falconiere. Bisognava impiegare il potente Girifalco perché la Gru non si arrendeva facilmente dando luogo a battaglie aeree. Stuoli di Gru, le discendenti da quelle cacciate da Federico II, ancora passano e sostano in Capitanata. Scomparso il Pellicano a memoria d’uomo, un esemplare proveniente dalle colonie balcaniche si è visto fugacemente al Lago Salso qualche anno fa. La Cicogna si è messa ultimamente a nidificare in agro di Manfredonia. Negli anni 1960 il Lago Salso (ex-Daunia Risi) era frequentato regolarmente da un grande stuolo di Oche lombardelle che poi è andato scomparendo in pochi anni malgrado fosse protetto dal WWF, forse per qualche disastro ambientale nei luoghi di nidificazione in Russia. Fino ai primi del ‘900 il Pollo sultano veniva dato per sedentario e nidificante nei cannucceti del lago di Lesina. L’Aquila di mare Federico la definisce “ignobile” perché non volteggia maestosa tra le vette come quella “reale” bensì svolazza a bassa quota cibandosi volentieri di carogne. È una specie in espansione nel Nord e nell’Est Europa e forse un giorno ricomparirà attratta dalla grande colonia di Gabbiano reale sulle Isole Tremiti, una delle sue prede. Spicca la presenza di avvoltoi, il Monaco e il Grifone, certamente determinata dalle carogne lasciate dalle numerose mandrie domestiche che pascolavano nella piana e nelle paludi foggiane. La Capitanata ai tempi di Federico II doveva presentare un ecosistema del tutto simile a quello attuale di Monfrague in Spagna. Stranamente, le figure del libro non riportano il Capovaccaio che sicuramente c’era pure. Negli anni 1970 io stesso ho potuto osservare sul Gargano, nel Vallone dell’Inferno, l’ultima coppia prima che scomparisse. Forse il Gufo reale raffigurato nel libro non era propriamente selvatico ma uno zimbello usato per catturare corvidi e rapaci. Il Fagiano (si tratta del colchicus perché è senza collare) è da mettere in relazione alla fagianeria che Federico aveva verso l’Incoronata; già a quei tempi si facevano i “lanci” di selvaggina. l’Otarda e la Gallina prataiola sono le specie più strettamente legate alle condizioni edafiche della savana e risentono maggiormente dalle pratiche agricole. L’Otarda ogni tanto arriva dalle steppe orientali ma non c’è alcun ricordo di una sua stanzialità o nidificazione anche se resta probabile finché c’è stato il divieto di dissodamento della savana imposto dalla Dogana delle Pecore.
Il posto della Gallina prataiola tra umanisti e naturalisti
Per la Gallina prataiola il discorso cambia. Io l’ho vista negli anni 1970 al sito di Posta Rosa ma di recente non si sa quante ce ne sono. Il tracollo della specie c’è stato negli anni 1960 sicuramente per l’introduzione in quei tempi ecologicamente spensierati di nuovi prodotti chimici nei campi. Leggiamo una testimonianza di un cacciatore foggiano degli anni 1950: «La selvaggina stanziale tipica è la gallina prataiola che vive principalmente negli incolti e nelle stoppie. Da qualche anno è in diminuzione a causa delle sostanze tossiche impiegate nella lotta contro le arvicole e le cavallette. Uccello diffidentissimo tranne nelle giornate molto calde difficilmente capita a tiro. Ha la forma e le dimensioni della faraona, il colore invece è nocciola screziato di nero con la punta delle ali bianca. Nel volo ricorda molto l’anatra e chi non la conosce facilmente la scambia per tale. Non è oggetto di caccia sistematica e la massima parte si contenta di ucciderla incidentalmente. Nelle ore canicolari nel settembre i pollastroni si levano tra i piedi. Se si eccettua la soddisfazione di uccidere un animale diffidente e poco comune per mio conto sportivamente è un caccia poco attrattiva». A proposito della somiglianza per certi versi con l’anatra, nel De arte venandi Federico II la chiama “anatra campestre”. Questi pochi spunti mostrano quanto stimolante può essere l’incontro tra umanistica e scienze naturali, una disciplina facendo di complemento all’altra. Auspico un convegno a Foggia tra letterati, falconieri ed ornitologi, con tanto di esercitazioni sul campo di falconeria e birdwatching, il tutto ispirato al De arte venandi cum avibus.