Dobbiamo cercare ancora la «libera collaborazione degli animali», come chiedeva Jacques Cousteau, ma non dobbiamo abdicare al ruolo ed alla funzione di specie regolatrice che esercitiamo su questo pianeta (Villaggio Globale rivista trimestrale – settembre 2020)
iamo noi, le scimmie nude, ad avere il controllo della situazione su questo pianeta? Non ne siamo sicuri, a dir la verità. Anzi, per nulla sicuri. Siamo però la specie animale che ha sviluppato cultura e tecnologia tali da avere la supremazia sulle altre specie. Oggi ci domandiamo a quale costo e riusciamo pure a risponderci: ad un costo molto, molto alto. Si badi bene, questo che stiamo affrontando non è un ragionamento da vegetariani, da vegani o da animalisti. Tutt’altro. È un ragionamento basato sulle esperienze e sulle evidenze. Quarantacinque anni fa il francese Philippe Diolé pubblicò un libro importante per coloro i quali, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, si sono cimentati nell’analizzare e tentare di modificare i devastanti comportamenti umani nei confronti degli ecosistemi.
Il libro di Diolé
Il libro si intitolava “Gli animali malati d’uomo” (in Italia pubblicato da Rizzoli) ed aveva la prefazione del grande Jacques-Yves Cousteau. Secondo Cousteau, «la tesi che Philippe Diolé sostiene nel libro è che le apparenze ingannano, che l’uomo ha ancora un insostituibile bisogno degli animali. Ecco come egli giunge a tale conclusione: nel giro di trent’anni, vi saranno da sette a otto miliardi di esseri umani sul nostro pianeta. I fiumi saranno inquinati, le foreste devastate, i mari avvelenati, l’aria irrespirabile. L’uomo sarà sconfitto. Sconfitto, cioè, a meno che non abbia la volontà di lasciare sopravvivere gli animali liberi nel loro stato naturale, nella loro primitiva purezza. Infatti conservare la vita animale vuol dire conservare l’ambiente e conservare l’ambiente significa conservare l’umanità. Un animale non è fatto soltanto di carne e ossa, di pinne o di squame. Un animale è una composizione unica che richiede, soprattutto, ossigeno, carbonio e azoto. Ma esso è anche un essere legato a un sistema di rapporti col suo ambiente animale ancora non contaminato dall’uomo». Il libro di Diolé parla poi di “diritti” degli animali, cosa sulla quale possiamo solo in parte concordare. Però quel libro, come quelli di Konrad Lorenz e di Desmond Morris, ha segnato chi scrive. Quale rapporto si poteva determinare con gli animali ed in particolare con gli animali selvatici e con il loro ambiente naturale? Questa è stata la domanda che ancora oggi ci poniamo. Oggi più che mai.
Reintroduzioni e ripensamenti
A nove lustri dalla pubblicazione di quel libro molte cose sono accadute in buona parte previste da Diolé. E negli ultimi vent’anni troppe cose sono accadute che non sarebbero dovute accadere e che hanno mostrato la nostra fragilità di specie, la nostra vulnerabilità culturale ed ecologica. Parleremo dopo di epidemie e pandemie. Prima parliamo del rapporto con gli animali selvatici in funzione degli obiettivi di protezione della natura che un‘umanità sempre più urbanizzata si è posta. E prendiamo ad esempio le vicende legate agli orsi in Europa, soprattutto nell’arco alpino italiano. Nel corso degli ultimi anni gli incontri in natura tra esseri umani ed orsi è considerevolmente aumentato. Bene, si dirà. Invece noi non siamo così sicuri della bontà della cosa. Nel 1996, dopo alcuni anni di valutazioni, ha preso il via nel Parco provinciale trentino dell’Adamello Brenta, un progetto finanziato dalla Commissione UE chiamato “LIFE Ursus” con l’obiettivo di salvare l’ormai esigua popolazione di orsi autoctoni prossimi all’estinzione. Il progetto fu anticipato anche da una rilevazione demoscopica su 1.500 persone intervistate sul territorio. Oggi abbiamo una notevole presenza numerica di orsi in quel comprensorio così come abbiamo una notevole fruizione turistica del medesimo territorio. Forse le valutazioni non sono state ponderate adeguatamente. Si possono sviluppare progetti di reintroduzione di animali così “ingombranti” come l’orso in territori per i quali si programma una sempre maggiore fruizione turistica in natura? Non sarebbe stato più opportuno far fare alla natura e cioè aspettare che le popolazioni di orsi si potessero incontrare secondo tempi e modi, appunto, naturali? Certo, sarebbe potuto non accadere mai ma in quel caso si sarebbero potute scegliere altre strade. Ora l’orso in quella zona è diventato “animale problematico”. Ci si chiede quando mai non lo sia stato per la nostra specie. Nel XXI secolo, quindi, ci si trova d’improvviso catapultati indietro nel tempo, in una sorta di medioevo nel quale l’inurbamento ossessivo lascia campo libero a specie selvatiche che si rimpossessano di territori di cui erano state private. Nel medioevo, come oggi, si facevano i “processi” alle fiere responsabili di uccisioni o di mutilazioni nei confronti degli umani e le si passava per le armi. Niente di nuovo sotto il sole, quindi, se non fosse che sono passati almeno undici secoli.
La capacità adattativa che ci mette in difficoltà
Analogo discorso potremmo fare per le epidemie e le pandemie che, e parliamo solo degli ultimi vent’anni, stanno mettendo a dura prova la nostra specie. SARS, MERS, Ebola, AIDS, Zika ed ora SARS-CoV-2 e di nuovo la peste nera in Mongolia. Anche qui, nulla di nuovo sotto il sole se non che nel XXI secolo, con l’inurbamento così massiccio e la corsa a finanziarizzazione e tecnologizzazione e sanitarizzazione della vita, molti esseri umani non hanno abbandonato antiche abitudini alimentari. Non hanno perso l’indole del cacciatore-raccoglitore, vanno nella giungla e catturano pipistrelli da mangiare facendoli vivere ancora per poco in mercati fuori da ogni controllo sanitario con altre specie selvatiche. Lì accade che avvenga lo scambio di virus e di altri patogeni tra selvatici e lì avviene il salto di specie verso l’uomo. Da lì è partita la pandemia che ancora ci sta occupando anime e corpi. Quel rapporto così antico tra uomo e animale, quello all’insegna del cibo, così come per le carovane desertiche in cui ci si alimenta di carni contaminate di cammelli, persiste e ci tiene sotto scacco. Potremmo continuare con altri esempi rinnovati: la capacità di espansione di una specie straordinaria come il lupo, ritenuta quasi estinta al tempo della pubblicazione di “Animali malati d’uomo” e che oggi, senza interventi di reintroduzione, si impone in territori che avevano perso del tutto la memoria della sua presenza. Una straordinaria capacità addattativa che ci mette in difficoltà. Ecco, però, che le nostre capacità di uomini e donne del XXI secolo, con una incredibile storia e presente di progresso culturale, scientifico e tecnologico, devono affermarsi. È la nostra capacità adattativa ora ad essere chiamata in causa cercando ancora la “libera collaborazione degli animali”, come chiedeva Jaques Cousteau, nella conservazione dei loro habitat naturali ma, al contempo, non abdicando al ruolo ed alla funzione di specie regolatrice che esercitiamo su questo pianeta. Questa responsabilità non ci consente di commettere errori di valutazione per la difesa di una specie selvatica e non ci consente più di agire come se fossimo appena scesi dagli alberi.
Fabio Modesti