Nei boschi del Casentino con i gatti selvatici: ecologia e monitoraggio di un felide elusivo in Italia

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da ISPRA – 16 gennaio 2018

 

Un predatore tra i più affascinanti ed efficaci. Un “fantasma” delle foreste che ancora è presente negli appennini ma anche in Puglia nel Parco Nazionale del Gargano e forse anche altrove…

 

di

Edoardo Velli, Federica Mattucci e Romolo Caniglia (Area per la Genetica della Conservazione, ISPRA, Ozzano dell’Emilia, Bologna),
Marco Lucchesi (Biologo),
Marco A. Bologna (Dipartimento di Scienze, Università degli studi Roma Tre, Roma),
Ettore Randi (Department 18/ Section of Environmental Engineering, Aalborg University, Aalborg Øst.).
 

Il gatto selvatico Europeo (Felis silvestris silvestris) è un meso-carnivoro che, insieme alla lince eurasiatica delle Alpi Orientali, rappresenta l’unico felide selvatico sopravvissuto nell’Olocene recente in Italia (Masseti 2010).
Sebbene la sua definizione sistematica e tassonomica sia tuttora complessa da determinare, approfondite analisi filogenetiche lo collocano insieme ad altre 4 sottospecie selvatiche (F. silvestris lybica, F. silvestris cafra, F. silvestris ornata e F. silvestris bieti) nel taxon Felis silvestris (Driscoll et al. 2007). Il suo aspetto risulta molto simile a quello di un grosso gatto domestico soriano (Tabby) ma, ad una attenta analisi morfologica, è possibile individuare specifiche caratteristiche che, se presenti insieme, permettono di definirlo con sicurezza. Basti pensare alla coda, clavata e caratterizzata dalla punta nera e da due/tre anelli chiusi, alla netta linea dorsale che termina all’attaccatura della coda, alle quattro/cinque striature occipitali, alle due striature scapolari, al rinario nero (Ragni and Possenti 1996; Beaumont et al. 2001; Kitchener et al. 2005), tanto per citare le più rilevanti. È un predatore carnivoro obbligato che in Italia si ciba prevalentemente di roditori e che predilige le aree forestali, ma risulta in grado di adattarsi a diverse condizioni ambientali.
Solitario, elusivo, territoriale e notturno, il gatto selvatico è un importante regolatore ecologico e, anche se sfuggente, misterioso e ancora poco conosciuto, il suo fascino lo rende una specie dal considerevole impatto mediatico. Come molti altri carnivori, anche il gatto selvatico ha subìto una

Esemplare di gatto selvatico “catturato”da fototrappole
del Parco Nazionale del Gran Sasso-Monti della Laga
costante persecuzione nel passato quale animale nocivo (il Regio Decreto N. 1016 del 1939 ne promuoveva l’uccisione con lacci, tagliole, trappole e bocconi avvelenati) e il suo areale si è contratto e frammentato drasticamente sia in Italia che in Europa. Dalla seconda metà degli anni ’70 la sua protezione ne ha consentito la ripresa demografica e territoriale. Sebbene in Italia la conoscenza della sua consistenza e distribuzione sia ancora incompleta a causa della difficoltà di studio che la specie stessa comporta, la presenza del gatto selvatico Europeo è ad oggi accertata, con popolazioni ben differenziate, in Sicilia, lungo la dorsale appenninica dall’Aspromonte fino alle zone più settentrionali del Casentino, in Maremma e nelle Alpi Orientali (Mattucci et al. 2013). Recenti ritrovamenti ne suggeriscono il ritorno anche sulle Alpi Occidentali. Il gatto selvatico Europeo è ancora fortemente minacciato dalla frammentazione degli habitat e conseguentemente delle sue popolazioni, dalle cause di morte antropogenica (investimenti stradali) e soprattutto dall’ibridazione con il gatto domestico (Oliveira et al. 2008; Lozano et al. 2012).
Il monitoraggio delle dinamiche di popolazione di gatto selvatico sono lo strumento di base per conoscere e affrontare le minacce sopra citate, con particolare riferimento all’ibridazione con il gatto domestico. Il gatto domestico (Felis silvestris catus) è ampiamente diffuso in tutto il mondo. Sebbene molto vicino geneticamente ed etologicamente al gatto selvatico Europeo, deriva però dal gatto selvatico Nord Africano (Felis silvestris lybica) con cui condivide anche gran parte della linea mitocondriale. Il suo processo di domesticazione, complesso ed affascinante, con ogni probabilità ebbe inizio nella zona della “mezza luna fertile”, in Mesopotamia, durante il periodo in cui le popolazioni mesolitiche dell’area (es. Natufiani) cominciarono a dedicarsi ai processi di coltivazione e immagazzinamento delle granaglie (13.000 – 10.000 anni fa) spinti anche dai cambiamenti climatici del “Dryas Recente”. La crescente disponibilità di cibo e la mancanza di predatori favorì la diffusione di numerosi roditori che a loro volta incoraggiarono gli individui di gatto selvatico più intraprendenti
 
 

(e quindi geneticamente meno proni alla paura verso l’uomo; Montague 2014) a gravitare intorno agli insediamenti umani. Ben presto gli uomini cominciarono a realizzare che i piccoli felini avrebbero potuto rivelarsi dei preziosi alleati nella protezione delle risorse alimentari dai roditori, iniziando così probabilmente il processo di selezione artificiale (Driscoll et al. 2009b; Zeder 2012b;). Con il passare del tempo questo processo ha gradualmente legato il gatto domestico al “ruolo” di predatore, mantenendone un’alta efficienza nella caccia, ma ne ha anche aumentato la vulnerabilità per specifici patogeni e malattie per i quali, grazie alle cure dell’uomo, il gatto domestico ha limitato o perso la componente selettiva. Per questa ed altre ragioni di carattere più conservazionistico, l’ibridazione tra la sottospecie domestica e quelle selvatiche risulta molto pericolosa e può compromettere intere popolazioni (così come accaduto a quella scozzese ormai in larga parte introgressa). Il monitoraggio delle popolazioni di gatto selvatico è quindi molto importante per definirne in primis consistenza e dinamica ma anche per quantificarne l’incidenza del rischio di ibridazione. Lo studio di questa specie, come per molte specie di felini, è piuttosto complesso per le caratteristiche etologiche ed ecologiche già citate. In passato l’animale veniva studiato per lo più grazie a metodi diretti, come la cattura ed il radio collaraggio e/o tramite fototrappolaggio (Bizzarri et al 2010; Anile et al 2010). L’integrazione delle metodologie di genetica non invasiva ha permesso di aumentare la mole di informazioni mantenendo lo sforzo di campionamento inalterato. Queste tecniche mirano alla raccolta di campioni biologici non–invasivi (peli ed escrementi) cercando di massimizzare la probabilità di cattura e standardizzare il più possibile l’acquisizione del dato (Velli et al 2015). Il metodo si basa sulla definizione di una griglia di campionamento (in genere con maglie di 1kmq) in cui posizionare delle trappole per pelo imbevute di una sostanza che stimoli la marcatura dell’animale senza modificarne drasticamente il comportamento spaziale (tintura madre di valeriana, Monterroso et al 2011). La stazione è inoltre corredata di una o più fototrappole in grado di fornire dei documenti video-fotografici utili per estrapolare informazioni sul fenotipo e su alcuni aspetti comportamentali degli esemplari campionati; tali informazioni possono inoltre essere integrate agli eventuali genotipi ottenuti dall’analisi genetica dei campioni raccolti. Le stazioni sono collegate da transetti sui quali avviene una raccolta opportunistica di escrementi. Dal campione biologico, tramite la tipizzazione di un pannello di marcatori molecolari specifico (10 loci microsatelliti), viene determinato il genotipo individuale e l’appartenenza di questo (con un determinato margine di errore) alla popolazione selvatica, domestica o ibrida. La combinazione di tali metodiche ha permesso di compensare i punti deboli di ciascuna, come ad esempio l’effetto eterogeneo sugli individui della valeriana, la difficile identificazione degli escrementi, la mancanza di un dato genetico con il solo fototrappolaggio etc; mentre la loro applicazione in maniera sistematica ha permesso di ottenere stime di abbondanza e densità. Con questo sistema integrato di monitoraggio è stato possibile negli ultimi anni rilevare la presenza stabile ed in salute di una popolazione di gatto selvatico all’interno del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi e delle sue riserve integrali, esplorando così una delle aree appenniniche più a nord dell’areale della specie precedentemente studiate solo in modo opportunistico. La presenza simpatrica di numerosi gatti domestici nell’area studiata e le tracce di introgressione mitocondriale domestica rilevate all’interno della popolazione selvatica, hanno permesso inoltre di quantificarne anche i rischi conservazionistici.
Ulteriori studi sono in atto per approfondire l’evoluzione filogeografica della specie che presenta, in molti casi, caratteristiche mitocondriali che dovrebbero essere tipiche del gatto domestico. Il gatto selvatico Europeo ed il gatto domestico presentano infatti genomi mitocondriali diversificati da diverse mutazioni fissate nelle due sottospecie. Al contrario il gatto domestico ed il gatto selvatico Nord Africano (da cui deriva) condividono linee genealogiche più recenti che risultano molto più complesse da districare. Il ritrovamento di aplotipi mitocondriali tipici del Felis s. catus/lybica in diversi esemplari di gatto selvatico Europeo apre pertanto diverse ipotesi, oltre a quella dell’introgressione domestica, che sono tuttora in analisi.
Il monitoraggio delle popolazioni di gatto selvatico Europeo e del fenomeno dell’ibridazione è un’attività complessa che richiede risorse e un’attenta pianificazione. Il sistema integrato di metodologie applicato nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi e delle sue riserve integrali può essere utile per studiare anche altre specie elusive che condividono simili problematiche di studio. La sfida futura è quella di riuscire ad ottimizzare l’efficienza di genotipizzazione e di identificazione degli ibridi attraverso la selezione di marcatori altamente informativi, come ad esempio i polimorfismi a singolo nucleotide (SNPs), da applicare alla genetica non invasiva.

 

Bibliografia
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